Facoltà di magistero

Trasformazione ex orfanotrofio per facoltà di Magistero, oggi Area scientifico didattica Paolo Volponi
Considerato uno dei capolavori urbinati, la Facoltà di Magistero è l’intervento più radicale effettuato da De Carlo all’interno delle mura: il volume del preesistente convento è stato in gran parte svuotato e scavato. Pur mantenendo la cortina muraria preesistente, ricostruita, il nuovo edificio ridefinisce totalmente degli spazi intorno a due elementi principali: la corte cilindrica e l’auditorium semicircolare che contiene l’Aula Magna. Il grande lucernario, ormai iconico, consente l’ingresso della luce naturale.

La Facoltà di Magistero era nata ad Urbino nel 1936. I suoi spazi, dislocati in più punti della città, erano stati poi riuniti nella Sede Centrale. L’ampliamento dell’Ateneo in atto, richiedeva, sul finire degli anni ’60, la concentrazione degli spazi in un fabbricato più grande, come già era accaduto per la Facoltà di Legge.
Ancora una volta l’edificio prescelto fu un convento comprendente anche un’antica chiesa e un orto, notevolmente danneggiato e in parte abbandonato. Tuttavia, benché il complesso, al momento dell’acquisto da parte dell’Università, si trovasse in pessimo stato, De Carlo decise di conservare le murature esterne non volendo pregiudicare la particolare conformazione di quella zona del centro storico. Gli spazi interni, escluso quello occupato dalla chiesa, non erano di dimensioni sufficientemente ampie per accogliere i futuri ambienti che le nuove funzioni accademiche richiedevano. Pertanto il volume preesistente è stato spogliato degli innaturali accrescimenti, mentre la parte a nord dell’edificio e l’intero spazio aperto (l’orto) sono stati scavati per una profondità di 16 metri. Tale operazione di scavo all’interno della cortina muraria consente al corpo edilizio di svilupparsi sotto il livello del terreno e di estendersi volumetricamente, senza alterare il perimetro originale o superare l’altezza della vecchia costruzione.
La sistemazione dei locali si dispiega intorno a due elementi principali: la corte cilindrica e l’auditorium semicircolare. Intorno a quest’ultimo, su quattro livelli, sono disposte le aule, tutte illuminate dalla grande superficie inclinata in vetro che funge da copertura. Le aule per l’attività didattica sono divise da pannelli fonoassorbenti mobili; i due piani ottenuti con lo scavo possono così essere trasformati, rimuovendo i pannelli, nel grande anfiteatro capace di raccogliere fino a 1500 persone. Lo spazio può essere altrimenti suddiviso in due, sei o otto parti, mentre un’altra aula è ricavata da un ambiente sospeso sotto il lucernario.
Particolarmente interessa è che De Carlo definisca, per l’auditorium del Magistero, un sistema acustico simile a quello utilizzato nel teatro di Epidauro nel Peloponneso sotto il cui palcoscenico vennero collocati dei vasi di creta stratificati. Risolvendo alla maniera degli architetti del passato “il problema della forma”, ha previsto, sotto la zona riservata agli oratori, delle cavità che fanno da cassa armonica (esattamente come i vasi di creta). Il pavimento della corte interna è a un livello più basso del pavimento di entrata. Ne risulta che, chi scenda pensando di trovarsi a un piano interrato, si sorprenda, al contrario, a percorrere di nuovo un pianterreno. Al centro della corte due tigli, che suggeriscono immediatamente la dimensione verticale dell’edificio, tolgono ogni legittimo dubbio sovvertendo in maniera definitiva il proprio senso di orientamento. Attorno alla corte si dispongono gli studi privati dei docenti. Un lungo e sinuoso foyer connette tra loro corte, studio e auditorium riecheggiando l’ordito tipico delle strade di Urbino. Il trattamento delle pareti in cemento nei corridoi e nelle scale rafforza questa impressione.
Il volume della chiesa è stato approfondito con uno scavo per ricavare il cinema sperimentale - al primo livello inferiore sezione D. Al piano superiore è stata invece distribuita la biblioteca su tre livelli, grazie ad un sistema di sospensione di soppalchi metallici.
Al quinto ed ultimo livello - che diviene però il secondo per chi entri da via San Girolamo - vi è un ampio vano progettato per accogliere un caffè, fino a qualche anno fa luogo di ritrovo per studenti, oggi purtroppo occupato da segreterie e non più visitabile. Da questo locale si accede a una «cascata» di giardini pensili che fanno da copertura all’edificio. Queste aree ricreano in alto lo spazio naturale occupato dalla parte nuova dell’edificio e, pur ricordando immediatamente il tetto-giardino di Le Corbusier, al contempo riportano allo schema dei giardini pensili urbinati. Il verde dei giardini origina così un deliberato contrasto con la radiosa copertura vetrata. E proprio il lucernario, peraltro visibile solo dalle colline circostanti - in particolare da San Bernardino dove è situata la chiesa attribuita a Francesco di Giorgio -, diviene il gesto più icastico del moderno sull’antico, a tal punto da essere riconoscibile anche da una visione totale del corpus cittadino.
L'esterno, equilibrato e discreto, non tradisce il complesso e multiforme incastro degli spazi interni, fatta eccezione per il lucernario.
Essendo l'edificio permeabile da più parti, non esiste una vera facciata principale a cui assegnare le gerarchie della struttura: il cinema, per esempio, ha una sua entrata, così il caffè e uno qualsiasi di questi accessi può essere varcato casualmente. Come ogni opera di De Carlo, la realizzazione si contraddistingue per uno studio attento dei dettagli e del design: nella biblioteca lo stile moderno dei soppalchi, della scala a chiocciola in metallo o del sistema di luce artificiale è ben integrato con gli antichi stipiti e architravi delle finestre o con il soffitto preesistente della chiesa. Così come la scala a pianta circolare che serve l'area dei diversi Istituti o le finestre a due livelli che si aprono sui tetti della città e delle colline circostanti, si inseriscono con estrema raffinatezza nell'antico organismo.
Applicando l'operazione di riuso di un edificio, De Carlo destruttura lo spazio architettonico, cioè separa gli elementi principali che lo compongono, per poi ristrutturarlo, ovvero ristabilire nuovi rapporti tra le parti. Scriverà nel 1982: «Non credo si possa riusare uno spazio architettonico se non riprogettandolo. Questo significa farlo passare attraverso un'operazione che lo destruttura dai suoi contesti del passato per ristrutturarlo in un contesto del presente. L'operazione coinvolge allo stesso tempo l'artefatto e chi dovrà utilizzarlo, e il suo punto di arrivo è il loro reciproco aggiustamento all'interno di una nuova esperienza creativa che li trasforma entrambi». La creazione sembra dunque prender vita da una somma di atti percettivi diversi che si organizzano in un insieme unitario. Come in una tela cubista, grazie a una scomposizione delle forme e ricomposizione si perviene alla sintesi di una nuova forma. Simbolo di questa sintesi è il teatro-auditorium (Aula Magna), la cui magnificente integrità è tale da renderlo uno spazio autonomo, benché parte di un organismo architettonico.
La trasformazione avvenuta modifica i rapporti all'interno dell'edificio non solo su un piano prettamente strutturale, ma anche semantico. Il nuovo auditorium, per l'imponenza del suo lucernario, per la flessibilità della sala le cui aule della galleria ricordano i matronei, e per il ruolo equivoco e in parte misterioso che gioca con l'insieme, si carica di quella magica sacralità appartenuta un tempo invece alla chiesa e tutto il complesso è animato, come il Palazzo Ducale, di quello spirito che «non un palazzo, ma una città in forma de palazzo esser pareva» (B. Castiglione, Il Cortegiano, 1528).
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